CONVERSAZIONE CON GIUSEPPE MANFREDI

Postfazione in Mètro, in scampolo di tempo (da crepuscolo a crepuscolo)

Giuseppe Manfridi in corsivo

Cesare Vergati in tondo

G.M. Hai dedicato un volume agli aforismi: presenti peraltro anche nel testo. Il tema degli aforismi mi interessa moltissimo. Ho dato alle stampe “ Il contenuto non corrisponde al titolo”; che non è precisamente un insieme di aforismi; piuttosto un florilegio di paradossi e molto altro; che procede per una struttura modulare. L’aforisma, a mio modo di vedere, è una sorta di scritto con un suo epicentro autosufficiente;

collega quel che lo precede a ciò che gli sussegue, così da assumere maggior senso. Roland Barthes ha scritto che l’inclinazione a scrivere aforismi denuncia la volontà di iniziare dei libri. A suo parere: gli aforismi sono sempre degli incipit, che poi naturalmente si convertono, nelle intenzioni dell’autore – e di fatto anche nella struttura della proposizione – in qualcosa di autonomo: si racchiudono in sé stessi e si fanno microcosmo, molecola. Gustoso il sottile pensiero di Flaiano che alla domanda : “ Lei crede che la televisione abbia abbassato il livello culturale del pubblico? “, rispondeva : “ No, credo che abbia abbassato il livello culturale degli intellettuali“ Adeplhi, La Solitidine del satiro Pag. 143.

C.V. Gli aforismi sono presenti in qualità di sottotitoli nel testo e talvolta nell’intimo stesso dei poemi. Il “ Cèdro “ metteva al centro della narrazione il concetto e il sentire del trascendente, dell’infinitudine. Il tema di “ Mètro “si incentra sul concetto d’immanente, del suo trascorrere nel tempo, della finitudine.

G.M. Mètro mi ha attratto linguisticamente, magmaticamente. Ultimamente ho riletto Isidore Lucien Ducasse Conte di Lautréamont : “Les Chants de Maldoror”( “ I  canti di Maldoror “ ), un autore della mia matura giovinezza. Un’opera di grande significato. Sebbene non vi sia molta affinità tra il tuo Mètro e Les Chants, mi sembra nondimeno di avvertire un collegamento tra le due opere. Ritengo peraltro che le attinenze non siano quasi mai volontarie. Mi torna alla mente il primo verso del “ Faust “ di Pessoa che più di tutti mi porto dentro: “ Ah, tudo é símbolo e analogia! “) – ( “Ah, tutto è simbolo e analogia “, Giulio Einaudi Editore, pag. 8 ). Riconosco la composizione, diciamo, del paesaggio totale come un insieme di simboli e analogie. Di analogie che si sostanziano in altra realtà: che è il simbolo. Una cosa è analoga ad un’altra; così le analogie producono simboli; formano una realtà ulteriore. Elementi di questo ordito generale si evidenziano nel tuo poema.

C.V. Il trascendente sembra mettersi in luce soprattutto sotto due aspetti particolarmente significativi e apparentemente molto diffusi: la metafisica d’ispirazione, quella presente nelle intuizioni dei mistici, e nello slancio per creazione d’arte, ancora nel concepimento di un pensiero volto al fare nel mondo; e la metafisica di consolazione, quella che si dispiega nell’animo di una persona, l’intento di far fronte alla morte, in accoglimento di conforto. L’immanente si pone in ambito di un percorso naturale : quello della vita che avviene tra due termini inalienabili; in questo luogo l’arte ed il pensiero dimorano in terrena sede. Non si interroga sul mistero; sull’origine e sul fine delle cose; il mistero rimane invulnerabile, intangibile. Il concetto di sacro nel trascendente trova, verosimilmente, nell’immanente il suo corrispondente : il concetto di inviolabile. Da un lato l’invisibile fuori dal mondo, dall’altro l’invisibile intrinseco, ingenito, connaturato al mondo. Così accade che questi due elementi ( tra molti d’altri universi ), abitualmente contrapposti talvolta possono anche essere complementari: secondo l’intimità d’incontro del discorso. Certo la coscienza sensibile al trascendente, si percepisce in qualità di cura immortale; le riesce inaccettabile, perfino inconcepibile il valore del transeunte. Certo la consapevolezza dell’immanente indaga e interroga esattamente quel mortale transito come l’oggetto del pensiero: si pone dentro un termine chiaramente assunto. Così più spesso il trascendente e l’immanente hanno un vissuto di intensità di diverso componimento ed espressione: percorrono sentieri con ben diversa geometria: l’una chissà in uniforme linea ascendente, l’altro in segni compositi. Sono peraltro due visioni del mondo tra molte altre. Necessaria la polifonia, necessaria la variegatura. 

G.M. Hai usato la parola intensità, che era al centro della poetica di John Keats e che si accosta a una realtà romantica. Riguardo all’anagramma : la parola si disfa e si ricompone: questo indica un segno prodromico di un percorso d’immanenza. E’ la materia che opera all’interno di sé stessa, che non intende superarsi ma metamorfosarsi. Qui dobbiamo capire se metamorfosare significa un percorso che possa tendere alla trascendenza ( cosa che non credo ), o se invece sia una sorta di processo alchemico interno alla materia stessa: per cui la materia si fa, si disfa e si rifà, ma non si sopraeleva. E’ quell’immanenza del macabro che ritroviamo nella “Divina Commedia” di Dante: nel verso della Pia de’ Tolomei “ Siena mi fé, disfecemi Maremma “( Canto V, Purgatorio verso 132-136 ). Trovo che la parola “ disfecemi “, questa sdrucciola meravigliosa, operi una sorta di evento all’interno del verso, la gettata nel mondo di Heidegger, del “ Siena mi fé “; e sa di putrefazione: l’atto del disfarsi del corpo che entra nella terra, che si fa terra. Ha attinenza con la materia del personaggio  terreno Mètro. Sto lavorando da tanto tempo ad un’opera su Romeo e Giulietta dove il macabro avrà molto spazio: il calvario della materia che deve rovinarsi, ma che in realtà muta solamente. Romeo dirà a Giulietta : “ A rimanere con te a fare i vermi “. Si tratta di stare accanto al corpo e non oltre: poiché accade solamente la morte dell’io. Sono due personaggi pagani che vivono il macabro senza remissione: in ambiente di trascendenza, di metafisica dell’epoca. Ricordo, nel testo, il tuo aforisma sul mistero:” All’incontro con indomito mistero dissipa l’ignoto “. Ritengo che il grande mistero trifasico : da dove veniamo, dove andiamo, chi siamo : in realtà lo abbiamo risolto da tempo, da millenni, dall’avvento dei primi poeti che ci dicono quello che è, quello che sarà. Il problema è che non accettiamo la risposta, che non accettiamo la domanda, che non accettiamo la questione. Quello che avverrà è il disgregarsi dell’io. Semplicemente non c’è la vita dell’io. Certo che c’è la vita dopo la morte! C’è vita chimica. Il mio corpo diventa non più una entità coesa, diventa : vermi. A noi fa orrore dire la parola vermi, il tanfo della putrefazione. Certo ci ripugna perché umani : culturalmente disgustiamo di certe esalazioni. Il paesaggio è tutto ciò che accade: è la totalità dei fatti e non delle cose : scrive Wittegestein nel  Tractatus logico – philosophicus ( “ Die Welt ist alles, was der Fall ist. – Die Welt ist die Gesamtheit der Tatsachen, nicht der Dinge “ SuhrKamp pag. 11 ) – ( “ Il mondo è tutto ciò che accade. –  Il mondo è la totalità dei fatti e non delle cose “ Einaudi, pag. 5 ).  Il paesaggio è quindi anche negli odori: i più leggiadri, i più repellenti: e nondimeno il paesaggio non giudica le sue parti, le assorbe, le propone. L’immanenza è dunque quel che c’è; la trascendenza è una nostra opzione, una opzione del pensiero. Che può essere una opzione narrativa, una opzione letteraria. Nei mistici, a volte, mi pare di leggere la volontà di essere immanenti nella trascendenza: uno strano paradosso. Tuttavia non si può essere nella trascendenza: poiché nella trascendenza si trascende. Nella trascendenza si vive ciò che il macabro fa vivere chimicamente ovvero che si pensa metafisicamente.

C.V. Forse qui verrebbe da suggerire una distinzione tra pensatori e filosofi. I filosofi portano con sé un archetipo, un metodo che s’accosta sovente, nei secoli, a quello della teologia; l’idea, l’a priori quale necessità incontrovertibile del loro speculare. I pensatori stanno più nell’ambito dell’arte : si muovono accanto alla vita che si fa. La storica secolare contrapposizione ovvero coesistenza tra essere e divenire. Il pensiero occidentale ondeggia tra l’essere, alla ricerca di una ontologia da porre ferma a priori, e il divenire : che invece sfalda e smuove. La nostalgia dell’essere e la malinconia del divenire. Quello che si eredita: tradizioni, costumi, idee, archetipi ecc.. merita una elaborazione, un continuo svolgimento; e soprattutto un indispensabile grande audace movimento volto a realizzare un vigile, attentissimo vaglio del tramandato: l’intento di formare per sé una personale, autonoma visione del mondo atta ad accogliere, in modo originale, quel retaggio depositato da più tempi, ammesso questa volta tuttavia con piena consapevolezza di scelta; ovvero invece sapere bene l’esito, da quel continuo svolgimento, dell’opera d’un ventilabro destinato a smentire quell’eredità, il fine di indossare nuove vesti di rinascita.

G.M. Dosoievki scrive : “Мало того, если б кто мне доказал, что Христос вне истины, и действительно было бы, что истина вне Христа, то мне лучше хотелось бы оставаться со Христом, нежели с истиной” 39. Н. Д. ФОНВИЗИНОЙ Конец января – 20-е числа февраля 1854. Омск ) – (“ ..arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità “ pag.37 : “Lettere sulla creatività “/ Lettera a Natalija Dmitrievna Fonvizina 1854. A me pare che questo sia un modo di dire “ Scelgo l’umano “. La verità può essere inumana. Di nuovo, anche in questo caso, Cristo addirittura è chiave per un percorso d’immanenza e non di trascendenza.

C.V. “ Cèdro“ possiede un credo, si assesta in seno ad un sentimento: quello del trascendente. Inizialmente il personaggio ha difficoltà a percepire una visione altra: che non sia la sua. Quando finalmente si apre al mondo, intende bene che il suo sentimento è solo una parte, non il tutto; così serba per sé il suo credo, quale suo personale modo d’essere, di agire, di fare:  ammette l’esistenza d’altre visioni del mondo, fonte di amplitudine e profondità del percepire, del pensare, del creare. Mètro nell’ immanenza incontra, nel suo percorso, pluralità di vite, d’esistenze. Le diverse visioni del mondo si propongono chissà di coesistere : partono da più porti e navigano in medesimo ampio pelago; il simile di più suoni, di più colori, di più sapori, di più odori, di più linee e curve. E avrebbero modo di condividere il porto d’arrivo: quello dell’umano. Le più libere forme, le  espressioni più libere, del tutto naturalmente, potrebbero convergere : verso i mortali. Infatti questa confluenza di più visioni del mondo  talvolta ha luogo nel reale. Mentre la tendenza all’astrazione funge, quanto spesso, da attrazione per certi mistici. Nell’immanente l’aspetto del sentimento mostra più volti e più ragioni, nel trascendente sembra sapersi realizzato in un tutto conchiuso, esclusivo, nella definitiva congiunzione tra divinità e persona.

G.M. Nella condizione umana il sentimento, il sentire è una premessa al tutto: all’apprendere, all’istruzione che si dà, a quella che si riceve. Certo l’istruzione modella anche il sentire, lo condiziona. Parlavi di fede come di uno stato d’animo: ma è anche vero che questo stato d’animo può essere indotto; nasce dentro come una lingua madre; ti ritrovi un risultato dell’educazione alla fede. Talvolta accade anche che una conversione possa aver luogo come : dal nulla d’improvviso il tutto della luce; a causa di un dolore estremo, profondo, insormontabile per la persona. Le parole insuperabili di Shakespeare nel Re Giovanni ( The life and death of King John ) , nella scomparsa del piccolo Arthur; che fa dire alla madre Constance  : perché volete consolarmi del mio dolore, se nel mio dolore c’è lui .., non toglietemi il mio dolore. Ecco dunque il sentimento posto in natura di contraddizione umana. Pensiamo al libro di Camus “ Le Mythe de Sisyphe “ (“Il mito di Sisifo“), al concetto dell’assurdo. E’ il medesimo problema di  Amleto “ Essere o non essere “  ( To be or not to be ). Se la vita val la pena o meno di essere vissuta. E’ una risposta nella domanda e viceversa. E’ il problema della coesistenza del non essere nell’essere e viceversa. Tutto nella vita si basa sulla contraddizione. Kavafis afferma : non hai contraddizioni? Sei senza possibilità!. In letteratura vi sono peraltro molti falsi miti che denunciano evidenti contraddizioni. Ad esempio il concetto di originalità. Quando ci confrontiamo con opere decisive scopriamo che questo concetto non regge. Non c’è opera che non derivi, non da spunti altrui, bensì da strutture narrative solidissime che sono state consegnate all’autore. In “ Antonio e Cleopatra” Shakespeare riprende pagine di Plutarco, esattamente come le ha scritte Plutarco: cambia quelle tre cose che fanno della pagina di uno storico la pagina di un drammaturgo. Questa è la straordinarietà dell’autore ultimo che arriva, prende il pregresso e lo firma lui. Anche perché se una cosa non è stata tradotta in scrittura fino ad ora, sia come spunto narrativo che stilistico, vuol dire che non aveva motivo d’essere tradotta, non vi era necessità. Aristotele nella sua “ Poetica “ difende la “ Elettra “ di Sofocle : storia già raccontata molte volte: è la difesa di una ripetizione. Jean Giraudoux scrive: “ Le plagiat est la base de toutes les littératures, excepté de la prémière, qui d’ailleurs est inconnue “ ( “ Il plagio è la base di tutte le letterature, eccettuata la prima, peraltro ignota “). Questa è una contraddizione, ma è la realtà. Le contraddizioni sono le garanzie della realtà.

C.V. Certo le contraddizioni ( anche : i contraddetti di K. Kraus ), pongono in essere evidente – del tutto naturalmente – : l’eterogeneo vissuto e il pensiero discorde degli uomini. La contraddizione si rivela essere di fatto una spinta dinamica, un motore potente all’atto. Walt Whitman scrive “ Do I contradict myself ? Very well, then I contradict myself, ( I am large, I contain multitudes “ ) / ( Mi contraddico ? Va bene, e allora mi contraddico ( sono vasto, contengo moltitudini “ pag 50/53 “ Contengo moltitudini “ Edizione Ponte alle Grazie Poesia ). Il contrasto effettivamente avrebbe fruttifera azione: il pensare alla necessaria contesa tra opinioni, ai componimenti in forma di disputa, ai contrastanti dialoghi d’un tempo in forma di più figure allegoriche ( soprattutto la prosopopea ). Grazie alla contraddizione si celebra verosimilmente anche l’organismo vitale delle inconciliabilità:   che impegnano alla scelta. E nondimeno quelle contraddizioni, nel loro divenire ( a scanso visibilmente d’allettante perenne compiaciuto stazionamento ), disporrebbero della facoltà di rinvenire eventualmente un asilo, una sede, in ultimo una dimora : una forma ed una espressione chissà insite nella visione d’un insieme, intimamente coesa ( il dire ), che avrebbero forse una funzione d’incitamento; l’intento di offire un senso proprio all’individuo, a indicare, in modo credibile, una direzione all’opera, un suo orientamento coerente, sebbene evidentemente illusorio: come d’altronde ( certo ) apparente, per qualsiasi altra volontà di senso. Un tema complesso quello dell’originalità; che predilige l’innovazione, una prassi altra dall’abituale. Ogni autore porta dentro quale mondo connaturato: una pluralità di pensieri, di letture, di vissuti, che in ultimo elabora a proprio modo il fine di creare un mondo a sé, un carattere proprio : epperò individuale in estro di stile, di eco nella creazione. L’originalità potrebbe essere concepita come questo elaborare a proprio modo; Proust suggerisce nella Lettre à Madame Straus “ Chaque écrivain est obbligé de se faire sa langue “ ( Ogni scrittore è costretto a farsi una sua lingua ). Evidentemente non si tratterebbe di alcunché di totalmente nuovo, bensì di lasciare un’ impronta singolare, unica dell’autore : che lo renderebbe riconoscibile, cioè a dire inconfondibile. Un tentativo fors’anche di scemare il prolisso in favore della pregnanza. In un’opera inoltre si ravvisa, a mia impressione, una distinzione  tra immaginazione e fantasia. Il desiderio della fantasia, il bisogno della immaginazione. L’immaginazione procede per immagini : la si potrebbe intendere come l’avere un’ immediata intrinseca aderenza al reale. La fantasia parrebbe  invece dedicarsi  all’invenzione: per cui vengono alla luce opere più visionarie, favolistiche o dell’assurdo, del grottesco. Suggerisce Schopenhauer “ …weshalb ich die Poesie definirt habe als die Kunst, durch Worte die Phantasie ins Spiel zu versetzen. “ ( 212 ) – (  “ ..perciò ho definito la poesia come l’arte di mettere in moto la fantasia con le parole “ pag. 556 “ Parerga e paralipomeni “ Adelphi ). Densità di concetti, intensità d’immagini, inventività di fantasia. La forza e l’intimo d’immagini in ambito di variegata polifonica fantasia. Viene alla mente naturalmente lo scrivere di Kafka, di Bulgakov, di Rabelais, di Cervantes ecc.. Mètro, al pari dei poemi precedenti, si affida alla fantasia visionaria; pregnante tuttavia d’immagini mutuate dal mondo materico, umano, animale, vegetale, minerale. Concepisce al medesimo tempo una struttura teatrale: teatro di campo in fisionomia di losanga e intende una sensibilità musicale. Quel che affascina nel teatro, a mio sentire, è il concetto fisico del limite: esso opera in un ambiente finito. Più uno spazio si conchiude in una dimensione racchiusa, più si espande la fantasia, paradossalmente. Il teatro fa teatro in sé con accanto un pubblico,  poiché ha un’apertura materiale e simbolica verso l’esterno.

G.M. Per me,  nella mia esperienza di drammaturgo la fantasia : è la volontà d’immaginare l’implausibile. Suggerire semplicemente quel che la storia ci mostra. Un asino che vola è un atto di fantasia. Così come nei poematici viaggi lunari di Cyrano de Bergerac ( 1619 – 1655 ):  il romanziere, il drammaturgo ( non il personaggio di Rostand ); che inspirò anche Jules Verne per il suo viaggio sulla luna. L’immaginazione, si è l’immagine; ma in ambito teatrale è una immagine del sé: che al momento non c’è ma che possiamo presentire. Immaginiamo un assetato che abbia tra le mani un bicchiere d’acqua ghiacciata e che sappia che di lì a dieci secondi, se vorrà potrà bere, o di lì a un minuto. In quella situazione l’assetato già beve, già vive il piacere di bere. Se non avesse il bicchiere tra le mani non potrebbe già pregustare il momento di quando berrà. Lui si trasferisce in un sé che non c’è ma che sarà. E’ quel credere a cui fa appello il prologo dell’Enrico V di Shakespeare “ O, for a Muse of fire, that would ascend the brightest heaven of invention.. And make imaginary puissance “ ( ( “ Ah! Potessi aver qui una musa di fuoco per ascendere al più luminoso cielo della fantasia ..e create, così, un imponente esercito immaginario ““( Bur pag. 24, 25 ); che chiede agli spettatori di fantasticare un esercito che non potranno vedere, ma di credere che quei due attori sul palcoscenico siano venti, duecento soldati, duemila soldati, altrimenti nulla avverrà. Il tuo poema parte da una recinzione geometrica, la losanga e nella lettura ad alta voce, come suggerisci,  c’è un principio scenico: perché la messa in voce esprime  un embrione di tridimensionalità. L’O di legno (“ This wooden O “ ) non è lo stage: definisce la circolarità dell’architettura teatrale. Mi riporta a pensare al film “ Fanny et Alexander “ di Bergman, al discorso di Oscar: che dirige un teatro locale. Un discorso che ben si abbina con la O di legno di Shakespeare, ma non per una voluto richiamo bensì per una magica analogia; che per me significa  una sorta di magnetismo astrale tra materie che avvicina Shakespeare e Bergman, e viceversa. Sosteneva Borges  che non ci fosse una priorità d’epoche fra intelligenze e spiriti. Oscar dice : “ ..fuori di qui c’è il mondo grande e qualche volta capita che il mondo piccolo riesca a rispecchiare il mondo grande tanto da farcelo capire un po’ meglio “. Il grande mondo viene in questo piccolo mondo per vedersi. Questo discorso è molto prossimo alla tua questione; questa geometria che contiene il piccolo mondo, un contenere sul bordo. Mètro si muove lungo il periplo della figura, la losanga.

C.V. Entro un determinato perimetro: certo si muove l’avventura umana, immanente di Mètro. Non contempla un’ origine, né tantomeno una fine. Il personaggio viaggia all’interno di  un percorso definito, di finitudine, nel quale si sa nel tempo.

GM ..prospetta una dinamica, fa immaginare quel che può diventare..

C.V. L’aspetto musicale del testo si fa conoscere più prossimo al concetto di armonia. Di accordi consonanti, sintonia tra suoni simultanei: la polifonia. Di un modulo poetico quindi più distante dalla melodia : che invece sembra mettere in risalto più l’ amabilità del suono. Una polifonia che rivendica Nietzsche nella prefazione al suo “ Morgenroete “ (“ Aurora “ ): “ Philologie ….sie lehrt gut lesen, das heisst langsam, tief, rueck-und vorsichtig, ….mit Hintergedanken, mit offen gelassenen Thueren, mit zarten Fingern und Augen lesen “ pag. 17 ( DTV/De Gruyter – Duenndruck Ausgabe ) – ( “Filologia….insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, non senza secondi fini, guardandosi avanti e indietro….lasciando porte aperte, con dita ed occhi delicati..” ( pag. 11 Mondadori ) 

GM : Nella drammaturgia dobbiamo confrontarci con l’italiano : che è una lingua unica e multipla al tempo stesso. Unica e rigidamente unica se intendiamo l’italiano convenzionale: quella che permette a un siciliano e una persona del nord di comunicare; e poi ci sono i localismi. Il poema polifonico della “ Divina Commedia “ di Dante. La polifonia dell’opera di Shakespeare. Quindi la polifonia di Dante ha anche un aspetto teatrale. Per chi scrive teatro la lingua italiana è piatta dal punto di vista fonico, ad alto tasso di vocali, che non sono plastiche. Difficile respirare con le vocali. Io respiro nell’uso delle consonanti. Una lingua con alta densità consonantica come l’inglese si presta bene al dire in teatro. Si afferma che occorra la sintesi in teatro: contraddizione in essere. Non è vero! Le frasi in teatro devono dire assolutamente tutto: in modo che si senta vivere il detto in accordo con la sillabazione e la ricezione, e così non si perde di vista il prosieguo del dialogo. L’inglese tiene il ritmo dell’inspirazione e dell’espirazione. In  Italia il teatro dialettale raggiunge questa funzione, poiché usa una lingua non ancora sedata. Alfieri, il grande disturbatore, ha capito che un trageda, per fare teatro, debba essere disturbante; debba disturbare foneticamente. Il teatro si fonda non sulla melodia, semmai sull’armonia dei rumori. Si deve fare rumore. Bisogna attingere anche al cattivo gusto. Il cattivo gusto nella fattività narrativa :  è oro per il teatro. Ne fanno uso Shakespeare, Artaud,  ecc..