CONVERSAZIONE CON NANNI CAGNONE

Postfazione

Nell’evo contemporaneo si ha modo di osservare la presenza di un imperioso secolare simulacro grandemente prevalente nel reale: a dire la mostra di un sentimento molto intenso che, innamorato di sé, interpreta l’essere in termini di una indefettibile petitio principii, in pratica e simboli. Chissà forse sorge la forma di un controcanto considerato invero ininfluente, l’esigenza invece di un viaggio d’elezione dell’individuo, ovvero un processo di liberazione: l’urgenza quindi di ricreare ex novo un mondo proprio, singolare, scelto, condiviso con sé stesso in tutta autonomia.

Oltre la singolarità dell’individuo e le esclusioni causate dalla sua interiore, esigente intensità, il vagheggiamento del molteplice, la difficoltà d’appartenere e una residua comunanza, generalmente malata di convenzioni. Il diaframma tra dentro e fuori è sempre più incerto e sottile. Nel nostro tempo, ardua la solitudine, ma – com’ebbi a dire – sia generosa, o diverrà la parodía d’una vagheggiata incolumità. 

In soccorso sopraggiunge, a sembrare generosa – quando accade, putacaso avesse luogo – la poesia, in tutte sue rappresentazioni e forme: in nulla professione d’ideologia, in suggerimento pertanto d’un modo d’essere vòlto a fantastica e insieme tangibile apertura ai possibili:  “… doch dichterisch wohnet der Mensch auf dieser Erde “/ “ ..ma poeticamente, l’uomo dimora su questa terra “  ( Hoerderlin, pag. 347, Mondadori ); poesia tesa a percepire intimamente il mistero delle cose, sebbene naturalmente non si intenda panacea. Mistero che non chiede alcun svelamento, cha mai nulla rivela, ma semplicemente sta accanto a tutt’uomo, in sua compagnia: l’intento d’essere in canto e pensiero. 

Il linguaggio è una divagante possibilità del mondo, e la poesia è per me l’unica speranza del possibile. D’altra parte, essendo suo appropriato assillo l’indicibile, è una scomodità della logica, quindi ci sta accanto come scandalo, come escandescenza. Quanto ai misteri, è mia opinione che non si tratti affatto d’intenderli, bensì – in alcun modo – d’approfittarne. 

L’indicibile verosimilmente si percepisce quale sublime ossessione, indispensabile all’animo: in ineluttabile esistenza ed essenza. Animo comunque disorientato, talvolta smarrito quando nella sola tentazione della grande malinconia e nondimeno presto nell’accogliere la forte tensione, crudele quanto spesso, di mettere in parole l’ineffabile. Forse un semplice alto primevo bisogno, e al contempo un’ineludibile aspirazione a proporre a sé un senso evidentemente frutto dell’alchimia di fantasia e immaginazione. Si potrebbe persino temere – peraltro – che nel linguaggio si creda di ritrovare l’intrinseco autentico delle cose così da dar a intendere il proscenio per le quinte. 

L’indicibile. A volte, ho il desiderio di lasciare le parole per affidarmi alla langue sifflée. La natura asintotica dell’attività poetica rende congenito l’indicibile. C’è nell’accertamento dell’esperienza un’allusività che ammette insoddisfatta la nostra capacità di dire. Perciò, l’indicibile, al parer mio, non può fingersi una – sia pur irraggiungibile – mèta: un rimpianto semiteologico invece. L’autentico, il vero della parola, mi sembra una superflua iperbole. 

Per cui abbiamo imparato a conoscere qualsiasi opera quale incompleta, natura secondo; che lascia ogni autore in uno stato di sospensione, in un cruccio quasi insostenibile, come accade spontaneamente a qualsivoglia visione del mondo. Si avverte, può essere, fin dall’origine del fare, una benefica indicazione delle cose alla mente: il fine quindi di giustapporre la vita al pensiero; in elusione, se sovrumana impresa, d’ogni apriori, quell’atto vale a dire di voler ridurre il felice complesso del vissuto a un infelice solo elemento universale, a voce unica. Qui l’indicibile ha da far fronte a questione ardua poiché: finanche lo stile – suprema prova, quanto audace tentativo – di avvolgere un evento, un’esperienza, un fatto, una materia dentro forma di detto poetico, in ultima sintesi, si sa sempre per l’appunto incompiuto, la finitudine insomma quale eccelso limite dell’umano operare.

Quanto a me, amo la finitudine e la molteplicità, mi appagano i limiti, m’ha convinto da tempo la precarietà. Naturalmente, sentimenti come questi chiedono una posizione laica, o per lo meno immanentistica. Credere in una trascendenza, offende con una cattiva astrazione l’esperienza dei viventi, scredita la loro mortalità. La mia domanda è sempre questa: perché quel che c’è non basta?

Infatti i più sguardi sul mondo enunciano l’imprescindibile diritto a più modi d’essere. D’altronde l’immanenza non reclama alcun privilegio. Una domanda così ben posta indica l’insopprimibile indispensabile d’ incessante interrogazione. Da cui l’emergere d’una audacia, d’una alea dell’irrisolvibile che ingenera pertanto sì delicato ossimoro: a sapere il permanere d’una intensità di visione sobria e inquieta al tempo stesso; a ragione di un percorso vitale che non contempli né porto né deriva. Ad una data percezione allora, nel tempo, la finitudine verosimilmente incontra interna serenità: del tutto naturalmente; magari proprio per lo stato di friabilità nell’essere. Forse si conosce, per alcuni versi – e in certi casi – nella natura dell’uomo una certa inclinazione all’insaziabile ma forse non si conosce se a motivo d’appetenza in anelo respiro d’abbracciare il tutto. Certo l’importante alberga nell’evidenza di un dato di fatto: le più diverse visioni sulle innumeri cose della vita.

Né teleologia né kháos. Ognuno di noi ha diritto a illudersi, a spendere la vita come vuole, come può, ma l’Essere è per me un’idea storta, incompresa sudditanza o mediocre consolazione: l’unica cosa di cui disponiamo è l’esistenza. L’unica che conti, è la consapevole esperienza fatta in nome della nostra mortalità. 

A dire il personale senso del percorso: un breve ( lungo ) viaggio, se possibile nel profondo: da luogo a luogo, da tempo a tempo, in autonomia da origine e fine. In mare aperto, al largo: la cognizione nondimeno d’un termine dentro un orizzonte finito. Rimane  evidentemente il libero sentimento d’andare oltre la finitezza ovvero certamente il libero intendimento d’ altri percorsi che, in bisogno e desiderio, vanno per altre dimensioni: i più viaggi. 

Alludi a un’ulteriorità, a un superamento implicito della finitezza. Ma non conosco le dimensioni di cui dici, a meno che non si tratti di visionarietà, quella generata dall’immaginazione attiva islamica, a cui può accedere chi possiede la gnosi. Ad ogni modo, secondo me, la visionarietà sarebbe il culmine, l’atto eroico della finitudine, e non il suo superamento. 

Presumibilmente questa è questione che si pone unicamente la persona vòlta al superamento della finitezza. Si tratterebbe eventualmente di un sentimento che, poiché non in me, non saprei interrogare. Quel sensibile sembrerebbe essere forse un anelito: un cercare di protendersi oltre la finitudine. La visionarietà dei mistici, mi pare d’intuire, possiede (in qualche misura) la percezione di una simile esperienza tanto corporea quanto mentale: che permane visibilmente in ambito d’esclusiva percezione individuale.

Anelito’ è parola adatta. Una propensione individuale senza raggiungimento. Che la visionarietà non sia -nonostante l’esistenza di quelle innumerevoli comunità che prendono il nome di ṭarīqa – condivisibile, mi sembra cosa certa: non ci sono intermediari, la ricerca è assolutamente personale. Come in poesia, si tratta d’una sfida all’asintoto. Si deve resistere al non-raggiungere.

L’asintoto, a mia sensibilità egualmente, figura essere peculiare natura nell’intimo della poesia, propria anche al pensiero. Una geometria dell’animo, un luogo che mai si incontra; il discreto della mente, avveduta a non fastidiare l’infinito con maldestre pretese. Si soggiorna appunto in uno spazio in continuo movimento, una tendenza che non stima auspicabile alcuna meta: in presunzione di raggiungimento ovvero in vana coincidenza con il punto di fuga; come dire – forse – simile alla qualità dell’orizzonte: quando ci si avvicina, quello sobrio, in tutta eleganza decede: per cui a noi talvolta sembra perfino impertinente. Probabilmente una gran parte della finezza nella sfida, nella delicata resistenza: proviene dal sempre osservare il non spezzarsi della linea, quale rovina invece se illusoriamente a portata di mano: a scanso peraltro di scommessa in ragione (quale infido intento!): la cerca d’un infelice quanto impossibile patto.

Sfiorare-sfiorare e non toccare. Tale opinione chiede che ci sia in noi un ideale, un modello implicito e irraggiungibile. Cosa fa d’un albero un albero sacro? Da quando la poesia è un’opera solitaria, la sacralità non è più ritualizzata e condivisa: arbitraria invece, infelicemente privata. Siamo dei profani, stiamo avanti a un tempio distrutto, proviamo nostalgia. Qualcosa di simile al risveglio involontario d’un sognatore.

Un problema indubbiamente ancor più stridulo nell’era presente. Certo il ricordo d’inizio del secolo scorso: più sognatori, nelle diverse arti, conoscevano il piacere, la volizione della condivisione. Il complesso dell’attuali credenze mette in mostra: l’intrusione d’un assillante bisogno, d’un diffuso bizzarro “ dovere “ di proporsi – con ogni mezzo – all’attenzione generale: fin nel dentro d’ un malinteso senso comune. Può darsi l’uso ( così frequente ) d’uno spregiudicato  (persino) sovraffollamento di parole, il prolisso d’ una esaltata abbuffata, sorta di bulimia del dire. Una indiscreta tendenza: il fine di porre manifesto tutto il possibile. Non giova inoltre : una certa confusione dei concetti e una palese fralezza dei simboli. Chissà potrebbe dare una mano l’ellissi ( tra più altre cose ): in suggerimento, in omissione del superfluo ovvero il pregio dell’implicito: il gusto squisito di una lettura personale; in naturale dissenso dall’esibizione di “ tutti “ gli elementi delle realtà e dei sogni. 

Sono un ammiratore dell’implicito e un cultore dell’ellissi: sono convinto che l’ellissi non ometta niente e che l’implicito sia qualità necessaria al senso, altrimenti destinato alla declamazione. Viviamo in un’epoca enfatica, in cui vacui pensieri son seguiti da punti esclamativi, un’epoca chiassosa in cui la stupidità si vanta. Condizione d’esilio. O, come si diceva un tempo, stranieri in patria.

Presso l’approssimazione viene meno, in effetti, quella originaria materia d’indagine – a ben vedere – perché in difetto d’identità. Si assiste allora all’ esposizione d’un insieme tendenzialmente privo di rigore, di precisione che rende particolarmente difficile il riconoscere l’interno e l’esterno di una persona, se d’altre distinta in quanto singola. Laddove possibile: si potrebbe, malgrado tutto ciò, saggiare le forze il fine di dimorare in terra propria; l’intento, laddove possibile, di sapersi disponibile, in buon agio, all’ ospitalità di terre affini.

‘In terra propria’, dici, ove – a dispetto del mondo abitato – poter abitare. Ma non intravedo ‘terre affini’, e questo riconduce all’individualità, ne fa un destino. Siamo altra volta in solitudine. La relazione tra individuo e gruppo, ch’è in certo modo essenziale, è venuta meno. D’altronde, non vedo fuori di noi comunità alcuna (intendo: una comunità che non sia passiva e conforme). La si può vagheggiare, ma non c’è.

Magari il vagheggiare vorrà intendersi non già quale solo mero ameno contemplare, bensì un pensare la relazione tra individuo e individui: credibile, in adesione puranche a una  interpretazione simbolica, ancorché immaginata pur presente, pronta all’opera in tempi favorevoli, in veste di singolare poema. A questo stato di cose ( osservabile comunque presso più epoche ) – detto per inciso – prende parte talora ( in qualche misura ) una manifesta abulia, tale plumbea pigrizia: l’esempio di voler gremire, sotto forma d’indolente capriccio del pensiero, il proprio vissuto di continue estranee citazioni in luogo di tirare fuori farina dal proprio sacco; in qualità d’arte maga, deliziosa e indipendente: certo da tener bene in affetto. La qualità non ha il numero della quantità. L’augurio di arginare per l’appunto il passivo il conforme d’un atteggiamento (del resto alquanto ostentato, la mala indole) orientato – tra più cose – anche a fare a meno per esempio: dell’intimo dei sinonimi, della loro natura di sfumature, il simile dei colori; quindi il vituperare l’amplitudine del multiforme uso della lingua, dell’espressione nel variegato, variegato accadere variegato.

Ognuno di noi fa un uso particolare delle parole. Contemplare, per me, è ben altra cosa rispetto al vagheggiare; implica consapevolezza, accettazione e distacco. Quanto al resto, hai ragione; sembra che quasi nessuno stia cercando la propria necessità: prestiti, copia-e-incolla, furti, fatuità. Fanno presto ad accontentarsi. E una straordinaria riduzione, per indifferenza e incompetenza, delle magnifiche possibilità della lingua. Da parte mia, non leggo i contemporanei: rileggo i classici.


Scrittore Poeta

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